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finito, mentre andavo avanti pagina dopo pagina: un oggetto solido con il suo peso e la sua
copertina e sovracoperta lucida, esposto in una vetrina sotto gli occhi dei passanti.
A volte mi fermavo davanti alla vetrina di una libreria mentre andavo alla redazione, e mi
immaginavo il mio libro tra gli altri; tenevo più stretta la cartella con il dattiloscritto per paura di
perderla. A volte mi immaginavo di correre su per le scale di Maria con la prima copia stampata,
mettergliela in mano e guardare la sua faccia mentre leggeva la dedica.
Polidori è andato a Edimburgo per seguire l'allestimento di uno spettacolo dal respiro delle
cicale con due famosi attori scozzesi. Mi ha telefonato una volta alla redazione, ha chiesto:
«Come va il libro? E la tua ragazza?».
«Abbastanza bene tutti e due», gli ho detto.
Lui ha detto: «Cerca di non distrarti. Cerca di non vivere troppo, in questo momento. Cerca di
concentrare tutto nel tuo romanzo, anche se ti fa soffrire. Avrai il tempo che vuoi quando l'hai
finito».
Gli ho detto: «D'accordo»; ma non avevo nessuna voglia di soffrire, né di aspettare. In ogni
caso, mi sembrava di vivere solo una parte della notte, e di avere molto meno tempo di quello che
mi sarebbe servito.
Caterina ha reagito in un modo strano quando le ho detto del contratto con l'editore spagnolo:
sembrava più stupita che contenta. Ha detto: «Ma se non l'hai ancora finito?».
«E allora?», le ho detto io, aggressivo per tutti i sensi di colpa che avevo dentro. «E bastata
la parola di Polidori Per fortuna lui ci crede».
Le telefonavo sempre alle otto di sera, con la più grande puntualità per stabilire un'abitudine
interamente affidabile ed evitare che mi cercasse lei più tardi. Le nostre conversazioni erano così
povere, mi sembrava difficile che avesse voglia di parlarmi una seconda volta in un giorno.
Ma non ero mai del tutto sicuro; dicevo a Bedreghin: «Se mi cerca mia moglie sono uscito».
Lui diceva: «E se ti cerca alle quattro di notte?».
Non sapevo cosa rispondergli; ogni volta che ero da Maria avevo paura che Caterina mi
telefonasse senza trovarmi. Era una specie di fantasma di pensiero, mi seguiva anche quando ero
convinto che se ne fosse andato. Continuavo a pensare che avrei dovuto chiarire le cose, ma non
riuscivo a pensare a un modo né a un'occasione; e la mia storia con Maria era del tutto indefinita,
non avevo nessuna sicurezza a cui appoggiarmi.
Alle otto in punto facevo il numero di Milano, come un esorcismo. Davo a Caterina sempre gli
stessi frammenti di informazioni non sostanziali, nello stesso tono parte stanco e parte distratto,
parte in cerca di una comprensione che lei non aveva nessuna ragione di darmi. Ogni tanto
Caterina mi chiedeva: «Quand'è che vieni a Milano?».
Le dicevo: «E difficile, sto lavorando come un pazzo».
Ogni tanto lei diceva: «Allora ti vengo a trovare io».
Le dicevo: «Ma c'è solo un letto singolo, ed è una casa orribile e sporca e rumorosa, in una
delle parti più brutte di Roma. Va bene solo per lavorare».
Non è che lei insistesse molto: si limitava a suggerire delle possibilità che un istante dopo
perdevano contorno in una nebbia di finte considerazioni pratiche, diventavano vaghe come il
rapporto che ormai ci legava. D'altra parte finchè non le parlavo mi sentivo una strana
inquietudine, che non dipendeva dal desiderio vile di giustificarmi ma sembrava un vero senso di
mancanza. Poi mi bastava parlarle tre minuti perchè il senso di mancanza si dissolvesse, cacciato
via da un desiderio di rivedere Maria ancora più forte della sera prima. Quando finalmente riuscivo
a trovarla al telefono, Maria spesso mi elencava in tono agitato gli incontri che aveva avuto
durante il giorno con agenti e colleghi e registi e produttori e funzionari televisivi e insegnanti di
recitazione o di danza o di lingue. Da quasi nessuno di questi contatti venivano risultati concreti,
ma promesse e intenzioni e nuovi appuntamenti, nuovi nomi che in buona parte conoscevo dai
tempi di Prospettiva. Maria si innervosiva moltissimo per il continuo rinviare e dissolversi di [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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